A fronte di un calcio che cambia continuamente nel gioco sul campo e nella terminologia calcistica di uso corrente nel commento sportivo, è inevitabile riscontrare l’aspetto di ripetitività, retorica, morbosa ovvietà per ciò che attiene questioni, domande, casi per cui il calcio viene ogni volta interrogato.

Allenatori, calciatori, direttori sportivi, presidenti, arbitri, fanno parte (ognuno nella propria diversità di ruolo e di appartenenza) di una compagnia teatrale che ogni fine settimana riva in scena, ponendo i propri protagonisti sotto i riflettori, secondo un copione solo in apparenza diverso, giusto perchè il pubblico non pensi di pagare ogni volta il biglietto per guardare lo stesso spettacolo trito e ritrito. E occhio non vede, cuore non duole.

Il momento più esemplificativo di tale rappresentazione sono le conferenze stampa pre partita e le interviste a fine gara, dove si comincia con il giornalista di turno che pone la classica domanda retorica (che contiene già la risposta che vuole ottenere) al giocatore o all’allenatore, al quale è già sufficiente fare un cenno con la testa per accattivarsi un successo di pubblico che forse in altri contesti richiederebbe una prova di maggiore spessore (come accade alla popolazione comune, ad esempio). Successo che continua indiscutibilmente l’indomani quando, ovviamente, il calciofilo medio recandosi in edicola legge compiaciuto a caratteri cubitali sul suo quotidiano sportivo lo stesso concetto sentito uscire il giorno prima dalla bocca del suo beniamino (e, ovviamente, da quella dal giornalista) pensando pacioso che, almeno nel calcio, qualcosa di coerente c’è. E vissero felici e contenti.

 

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