Che sia più o meno conosciuta e apprezzata dai singoli addetti ai lavori, la psicologia ha improvvisamente acquistato negli ultimi tempi un ruolo di primo piano nei discorsi di chi parla di calcio, facendo ingresso in punta dei piedi persino nei nuovi salotti dall’arredamento spaziale degli opinionisti. Non si è ancora arrivati a sentir parlare di “ansia da prestazione” al Bar Sport, ma potrebbe essere un momento non troppo lontano nel tempo.
Ma a ben vedere il riferimento agli aspetti psicologici non è casuale né rappresenta un interesse costante; più specificamente si riscontra la tendenza a ricorrervi in tutte quelle situazioni pubbliche in cui ci si trovi a dover giustificare un flop di prestazione (apparentemente inspiegabile), o quando il momento viene ufficialmente definito “critico” o ancora nei casi in cui si cerchi semplicemente di distinguersi rispetto ai soliti luoghi comuni giornalisticamente ridondanti. In pratica la psicologia si è finora rivelata un buon paravento e un ottimo argomento con cui si cade sempre in piedi; la ragione di tanta fruibilità sta nella natura stessa della materia, le cui argomentazioni sono sempre pronte e valide perchè una loro verifica nell’immediato non è possibile e perchè descrivono variabili astratte, inafferrabili (ad esempio dire “…la squadra ha mancato di personalità” è un concetto solenne e allo stesso tempo non sconfermabile neanche dalla moviola).
Questo atteggiamento denota da una parte l’uso (o meglio l’abuso) di una psicologia dozzinale sganciata dalla sua essenza scientifica e dall’altra l’ancoraggio ad una visione dell’intervento psicologico ancora parziale, legata all’esistenza di un problema, anche temporaneo, e la conseguente disinformazione su tutto ciò che è “psicologia della normalità”, comprendente uno studio e un’osservazione del comportamento sportivo di più ampio respiro, che tocca tutte le varie componenti prestazionali.