“Homo ludens” da una parte, “pathological gambler” dall’altra.

Due facce di una stessa medaglia: il gioco. Da svago innocente e irrinunciabile espressione di libertà, a ossessione viziosa e opprimente schiavitù.

Il gioco possiede mille contraddizioni, tutte incarnate da lui, il giocatore, un personaggio il cui fascino ambiguo ha ispirato da sempre la letteratura, il cinema, la storia, e ogni genere di riflessione culturale e scientifica. Recentemente l’attenzione per il fenomeno gambling (prendendo in prestito il termine anglosassone che definisce la condotta di gioco azzardoso) è andata sempre crescendo, anche in relazione all’aumento dei casi di dipendenza da gioco che hanno avuto esiti drammatici e al reclutamento di “baby-giocatori” (all’interno di fasce d’età preadolescenziali), reso più facile dai giochi d’azzardo di nuova generazione, ormai massicciamente presenti nei comuni bar e su internet.

Questo aspetto ha contribuito ad aumentare la preesistente inquietudine nei confronti del gioco d’azzardo e, di conseguenza, la tendenza a considerarne soprattutto i risvolti negativi e addirittura “patologici”. I giocatori d’azzardo entrano così a far parte della nutrita schiera delle cosiddette addictions (dipendenze) e sono considerati i nuovi “drogati”.

Del resto il comportamento e le dinamiche psicologiche del giocatore presentano svariate analogie con quelli del tossicomane. Tuttavia, al di là degli aspetti di illegalità e problematicità indiscutibilmente legati alla pratica del gioco d’azzardo, un atteggiamento eccessivamente severo e stigmatizzante potrebbe rivelarsi controproducente. Gli sforzi dovrebbero essere orientati, oggi più di ieri, alla comprensione delle motivazioni, più o meno consce, che stanno alla base dell’impulso a giocare d’azzardo in maniera sempre crescente. Curioso inoltre come, a loro giudizio, scarseggino i “buoni motivi” per smettere.

Il dato forse più allarmante è che queste considerazioni riguardano molto da vicino anche le fasce dei più giovani. Essi si stanno avvicinando sempre di più ad uno stile di vita “azzardoso” in senso generale, e al gioco in particolare per la sua funzione compensativa contro sentimenti di noia, vuoto, frustrazione, che si presentano ormai molto precocemente. Significativo è il fatto che l’età di esordio del disturbo da gioco si stia abbassando, interessando la preadolescenza.

Il gioco nasce come entertainment, ma rapidamente assume i connotati della compulsione. Capire e decodificare i passaggi intermedi di questo processo è una sfida affascinante e non priva di difficoltà, necessaria ai fini di una strategia di cambiamento che liberi il gioco dagli aspetti di abuso e autodistruzione, restituendogli la sua funzione “normale”e prosociale. Vale la pena ricordare che senza il gioco non c’è occasione di crescita, di sviluppo, di socializzazione. Il gioco non è solo azzardo. Non necessita sempre di rinforzi economici. Non è una moda di un gruppo di edonisti sprezzanti della vita e delle regole sociali.

Non è neanche una caratteristica genetica di cui è dotato un ristretto gruppo di individui. E’ universale. E’ un antidoto contro le paure mortali e la tristezza. Ha il potere naturale di restituire la gioia e di aggregare le persone eliminando le diversità individuali. Il gioco è insito nella natura umana, è istinto atavico e irrinunciabile. E’sospensione della realtà, spazio magico e illusione onnipotente. Anche se certamente si è evoluto, diversificato, modernizzato, la sostanza e il principio ispiratore sono rimasti gli stessi, duri ad affievolirsi perché primitivi, propulsivi e appaganti. L’uomo è ludens.

 

Troppa “Alea” e poco “Agon”

Un’interessante chiave di lettura delle dinamiche psicologiche inerenti al gioco d’azzardo ci è offerta da una datata, ma ancora valida, classificazione dei giochi, secondo la quale se ne possono distinguere quattro tipologie, in base all’elemento motivazionale predominante e al tipo di attitudine richiesta:

  1. Giochi di Agòn (competizione)
  2. Giochi di Mimicry (imitazione)
  3. Giochi di Alea (rischio)
  4. Giochi di Ilinx (vertigine)

Nei giochi di Agon gli elementi prevalenti sono rappresentati dalla fiducia nelle proprie capacità e nella propria intelligenza, dall’assertività e dalla tenacia, dallo spirito di sacrificio, dalla generosità, dall’autostima e dalla valutazione dei propri meriti e delle proprie responsabilità. Rappresentano il trionfo delle potenzialità umane e l’appagamento dei bisogni esistenziali più importanti, in tutte le età della vita. Inoltre l’aspetto agonistico favorisce lo spirito di squadra e l’emergere di valori e sentimenti “sani” rafforzando il senso di competenza e autoaffermazione. Fanno parte di questo tipo naturalmente tutte le discipline sportive e i giochi di abilità.

I giochi di Mimicry si basano sulla componente fantastica e immaginativa e sul desiderio, innegabilmente presente in tutti gli esseri umani, di poter essere qualcosa o qualcun altro, di reinventarsi, di rappresentarsi in una realtà alternativa a quella ordinaria. Naturalmente il modo stesso in cui queste attività sono strutturate presuppone l’utilizzo di “analogie” e il ricorso al pensiero magico. In questo senso questi giochi hanno una funzione importante, soprattutto nell’infanzia, per imparare a gestire aspetti della vita reale attraverso gradi variabili di simulazione. Esempi di queste attività sono i giochi di ruolo, le recite, le mascherate, ma anche le rappresentazioni teatrali stesse.

I giochi di Ilinx sono caratterizzati dalla ricerca della vertigine e del brivido e dal tentativo deliberato di alterare la normale percezione della realtà attraverso il ricorso ad esperienze tipicamente “no limits”; l’aspetto motivazionale di fondo dei soggetti dediti a queste attività sembra essere la ricerca del sensazionale (il cosiddetto “sensation seeking behavior”) come compensazione ad un livello di attivazione fisiologica percepito come insufficiente. Ne sono esempi gli sport estremi, le pratiche fisiche di caduta o lancio, le corse illecite di auto truccate, e altre condotte pericolose.

Com’è intuibile già in questo tipo di giochi si riscontra l’aspetto di assunzione del rischio (“risk taking”), ma sono specificamente i giochi di Alea (dalla parola latina che indica il gioco dei dadi) quelli che contengono l’elemento dell’“azzardo” per antonomasia, rappresentato dall’incertezza dell’esito e dall’affidamento al caso, cui si aggiunge la presenza di una posta in gioco attraverso la scommessa.

“Aleatori” sono infatti quei giochi in cui il risultato finale dipende quasi esclusivamente dalla sorte e solo in minima parte dall’abilità del giocatore. E’ interessante notare come ciò che qualifica l’azzardo in questi giochi non sia rappresentato tanto dalla presenza di una posta economica, quanto dall’atto dello “scommettere” , che assume il significato di una sfida dell’uomo contro il proprio destino, nell’illusione di controllarlo (un esempio fra tutti la pratica mortale della roulette russa in cui ci si gioca la vita per confermare il valore e il senso perduto dell’esistenza). Nel breve intervallo della scommessa la tensione adrenalinica, provocata dall’incertezza dell’esito e dal rischio, sale a dismisura e trasporta il giocatore in una dimensione fantastica ed estatica in cui il principio di realtà è soverchiato da quello del piacere.

Per questo i giochi con forte componente aleatoria, rispetto a quelli di Agòn, possono rappresentare un’abdicazione del senso di responsabilità in favore di un passivo e regressivo abbandono a ciò che la sorte riserva, senza più valutazione di merito, né sacrificio, nè senso di frustrazione per aver fallito perché buona parte della responsabilità dell’esito sarà sempre attribuibile alla presenza del caso. E’ anche vero che questa distinzione non debba essere interpretata rigidamente, in quanto diversi giochi possono contenere sia aspetti di Agòn che di Alea contemporaneamente (ad esempio il poker e anche alcune competizioni sportive). Le forme più patologiche di gambling sono associate a quei giochi caratterizzati da un grado molto elevato di aleatorietà rispetto a quello di abilità, perché ciò procura loro quelle particolari condizioni psicofisiche che il giocatore percepisce come pressanti e indispensabili e che possono assumere l’aspetto di una vera e propria forma di dipendenza.

La sfida non è più quindi uomo vs uomo ma diventa uomo vs fortuna (o caso o destino) spostandosi dal piano reale a quello fantasmatico (perciò necessariamente impari) con la tendenza a far scivolare il giocatore in una dimensione sempre più artificiale ed estranea dalla realtà, governata da forze e leggi di tipo magico, che lo distanziano sempre di più dalla consapevolezza di sé e delle proprie reali facoltà. Alla luce di questa distinzione delle attività di gioco, un’interessante ipotesi interpretativa riguarda appunto quanto possano influire sulla spinta motivazionale il rapporto fra la componente di abilità (Agòn), quella di rischio (Alea) e il sistema di aspettative del soggetto riguardo alla propria competenza. Il pathological gambler che fa del gioco d’azzardo il suo mestiere cerca di affermare la propria capacità su un terreno in cui non può esserci reale valutazione di capacità, perché il caso governa su tutto, incontrastabile, nonostante i sistemi di credenze magiche costruiti dal giocatore stesso.

L’atteggiamento, poi, di disprezzo del pericolo e di assunzione del rischio, ostentato dal giocatore come atto di coraggio, (e anche, talvolta, come stile di vita) si rivela, spesso come il patetico tentativo di lenire sentimenti di inefficacia, fallimento e insoddisfazione personale presenti su altri fronti, di compensare un’autostima carente e una scarsa fiducia in sé e nelle proprie capacità. Così l’azzardo si configura come via di fuga rispetto a sentimenti di inferiorità e\o a dimensioni depressive e richiama sempre più azzardo, innescando un circolo vizioso in cui c’è sempre meno spazio per l’Agòn.

Ne deriva che facendo aumentare il senso di competenza personale del soggetto in attività di gioco che coinvolgano e sviluppino abilità fisiche o intellettuali e possano rafforzare la percezione della propria autostima, potremmo attenderci un progresso nell’assetto psicologico e cognitivo del giocatore, favorendo il riappropriarsi del proprio ruolo attivo e produttivo anche nella vita.

 

“Quando il gioco si fa serio”

La Fortuna, come si sa, per definizione è cieca. Eppure non lo è quasi mai secondo l’opinione di quasi tutti i giocatori d’azzardo, i quali riferiscono di avere la convinzione di essere stati almeno una volta “guardati” dalla dea bendata, non casualmente ma perché scelti e premiati secondo una misteriosa logica che loro prima o poi scopriranno. E’questa la chiave di volta.

Essendo il caso che regola i giochi d’azzardo (di Alea, distinguendoli da quelli d’abilità), il giocatore, in teoria, dovrebbe essere in grado di riconoscerne l’imprevedibilità e, scoraggiato dalle leggi probabilistiche, prendere la cosa per quello che è e provare “a caso” a indovinare la combinazione giusta senza tanto accanimento, oppure in alternativa lasciar perdere addirittura. Ma la realtà non è quasi mai questa. Le cose si complicano notevolmente quando il giocatore, negando l’ingovernabilità del caso, sceglie di giocare d’azzardo con la convinzione di riuscire, per tentativi e a sommo studio, a individuare la logica sottostante per prevedere e controllare il caso, quindi vincere. E così si convince sempre di più che “se si impegnerà seriamente nel gioco” sarà ricompensato dalla Fortuna. Anche senza conoscere le teorie dell’apprendimento è facile immaginare come un’eventuale vincita in questa fase possa fungere da potente rinforzo di questa personale teoria e favorire così il consolidarsi del comportamento azzardoso.

I giocatori possiedono veri e propri archivi in cui custodiscono numeri, formule, calcoli, oggetti, giornali, fogli di carta su cui basare le loro strategie di gioco, sostenendo di avere affinato un “metodo infallibile” per vincere. Dall’osservazione del comportamento e dei “rituali” dei giocatori abituali risulta evidente come questi siano portati ad attribuire le vincite a se stessi e alle proprie capacità di pianificazione, mentre le perdite al caso, alla malasorte o all’inezia di qualcun altro, con una spiccata tendenza a dimenticarsi presto dei fallimenti e ad intaccare invece il fucile per i successi. E questo meccanismo si riscontra maggiormente nei giochi in cui si scommette sulla prestazione di qualcun altro (squadre, cavalli, macchine, etc..) in quanto quelle precedenti possono offrire spunti prognostici più realistici rispetto a giochi come i dadi o la roulette, ad esempio. Affascinante. E’ incredibile la quota di autoinganno che gli esseri umani riescono a tollerare per amore del gioco (ma non solo) e per gratificare i loro impulsi, percepiti come improcrastinabili. Anche pagando tutto ciò a caro prezzo, in termini economici ma soprattutto esistenziali.

 

“Gioco e autoinganno”

A sorreggere la beata illusione del giocatore c’è il pensiero magico (che è presente un po’ in tutti noi e al quale capita di ricorrere in svariate occasioni a scopo autorassicurativo, basti pensare ad esempio alla superstizione o agli scongiuri per le condizioni meteorologiche).

Questa modalità di pensiero arcaica pervade l’intero sistema cognitivo del giocatore, e non lo abbandona mai. Per questo diviene disfunzionale e alimenta le caratteristiche distorsioni cognitive osservabili in tutti i giocatori d’azzardo. Accanto all’illusione di controllo che ho descritto prima, particolarmente curiosa è la cosiddetta “Fallacia di Montecarlo“, che lega il suo nome al particolare contesto di gioco del casinò, secondo cui il giocatore tenderebbe a sovrastimare la propria probabilità di vincita in seguito ad una nutrita sequenza di perdite, e a sottostimarla invece subito dopo aver vinto. Questo aspetto paradossale di inseguimento delle perdite è forse interpretabile alla luce dell’ipotesi di un desiderio inconscio del giocatore di perdere, di cui parleremo. Per finire. Avete mai sentito parlare di locus of control?

Bene, se la risposta è no, l’occasione è opportuna per venirne a conoscenza, data l’utilità di questo piccolo concetto non riservata ai soli giocatori. La traduzione (non esattamente letterale) del concetto sarebbe “luogo di attribuzione causale” e, secondo la teoria dell’apprendimento sociale, si riferisce al sistema di aspettative e credenze riguardo al controllo della propria vita e alla realtà sociale che ognuno di noi si costruisce nel corso dello sviluppo. In base alla propria storia di vita, questo sistema potrà essere caratterizzato dalla tendenza ad attribuire la causalità dei successi/insuccessi individuali a influenze esterne, incontrollabili, come il caso o la fortuna, oppure viceversa a condizioni interne, come le abilità, le doti individuali, etc.

Ne deriva che i soggetti con locus esterno tendono ad essere fatalisti, più arrendevoli, condizionabili da circostanze ed eventi casuali, meno resistenti alla frustrazione e con tendenza alla deresponsabilizzazione. Al contrario, gli individui con locus interno si muoverebbero con più efficacia nella realtà sociale perché dotati di maggiore fiducia, più indipendenti e volitivi, in grado di fronteggiare meglio le difficoltà della vita. Trasportando la dimensione di esternalità/internalità nella popolazione dei giocatori d’azzardo si evidenziano interessanti parallelismi.

 

“Ce la farò, magari domani”

Con tale meccanismo autogiustificatorio ci si riferisce all’irresistibile impulso (compulsione) a giocare sempre più freneticamente in fase di perdita (o dopo una lunga sequenza di perdite), comportamento denominato “inseguimento”.

Questo curioso fenomeno, conosciuto da molti profani non di meno che dagli addetti ai lavori, nell’ambito del dibattito psicologico sul gioco è stato indagato soprattutto dalla psicoanalisi, che già quasi un secolo fa ne offrì interessanti interpretazioni (lo stesso Freud vi dedicò grande attenzione in Dostoevskij e il parricidio del 1928). La pietra miliare delle teorizzazioni psicoanalitiche prodotte sull’argomento è rappresentata dal concetto di “masochismo”, per cui il giocatore d’azzardo sarebbe mosso da un inconscio desiderio di perdere, responsabile della sua proverbiale recidività e ostinazione. Secondo tali concettualizzazioni, componenti intrinseche all’esperienza del gioco quali l’angoscia legata al rischio, la tensione e la paura sono da considerare elementi regressivi della personalità, riflessi di tendenze masochistiche sorte nell’infanzia.

L’idea potrebbe sembrare completamente assurda e dunque cerchiamo di spiegarci meglio. Il cosiddetto masochismo psichico, riscontrabile non solo nei giocatori d’azzardo ma in tutti coloro che inconsciamente sono portati a cercare l’umiliazione, la sconfitta o il rifiuto, trae le sue origini da stadi molto precoci dello sviluppo, in cui il bambino sperimenta una situazione di conflitto, provocato dalla necessità di assoggettarsi ai divieti e alle imposizioni genitoriali interferenti con il principio di piacere. Ciò può suscitare in lui sentimenti di insofferenza e aggressività nei confronti delle figure genitoriali (chi di noi non li ha mai provati??!) che in questi soggetti sarebbero stati particolarmente intensi ma anche un conseguente senso di colpa associato all’angoscia di poter perdere le persone amate, a causa dei propri pensieri ostili, o la protettiva rassicurazione del loro amore.

La necessità di difendersi da tali sentimenti, avvertiti come inaccettabili per la propria coscienza e pericolosi per la propria sopravvivenza, porta il bambino (e più tardi anche l’adulto in fase regressiva) a rivolgerli contro se stesso, come unico modo per soddisfare contemporaneamente la propria aggressività e il proprio senso di colpa (che dalla prima deriva). Si riesce così ad alleviare l’angoscia e a ristabilire una temporanea condizione di benessere. In conseguenza di questa complessa dinamica psichica le emozioni e le sensazioni negative come il dolore, la colpa e la punizione sono convertite in piacere, con la probabile conseguenza che il soggetto sempre più spesso inizi a ricercare situazioni problematiche o punitive, piuttosto che evitarle.